Articoli su Giovanni Papini

1968


Salvino Chiereghin

Io, Papini *

Pubblicato in: Vita e Pensiero, rassegna italiana di cultura, anno LI, fasc. 2, pp. 170-171
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Data: febbraio 1968



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   Con questa efficace e indovinata intitolazione Carlo Bo, nella ricorrenza del primo decennale della morte del Papini, raccoglie, per i tipi del Vallecchi, una significativa antologia di scritti di lui: un'antologia che è, — come sempre le raccolte di questo genere, impegnativamente condotte —, non solo un'ordinata rassegna, ma una ricognizione dell'opera di uno scrittore con un giudizio implicito su di essa.
   In venti nutrite pagine di prefazione il Bo espone lucidamente la sua posizione nei confronti dello scrittore, presentato in una vasta silloge, e ne traccia un profilo che, nella sua sincerità e acutezza, ha tutta l'aria di restare epigrafico, tanto l'arte papiniana è sottoposta alla disarmata e ferma verifica come di uno specchio.
   Nella prefazione il Bo pone l'accento sulla insoddisfazione, così palese nel Papini, e che deriva dalla sproporzione «fra la grandezza dei propositi e la misura sempre ridotta dei risultati». E se mai una convalida si volesse cercare a questo fatto — del resto incontestabile — basterà ricordare il clamoroso fallimento del Giudizio Universale. Si può dire che il Papini ha nutrita l'attesa e inseguita la speranza del capolavoro, inutilmente, per tutta la vita.
   Fin dalle prime schermaglie giovanili egli si sentì investito di una missione e montò in cattedra, vociferando e sentenziando con atteggiamenti gladiatorii e iconoclasti. E in questa specie di esaltazione ambiziosa, ma anche di contraffazione, egli si smarrì. L'amore del paradosso, gli scarti di rotta, le negazioni e le contraddizioni, che sono la storia della sua condizione di scrittore, costituiscono anche la denuncia di una irrequietezza, ansiosa di sottrarsi a uno schema e che per ciò stesso pronuncia la sua vocazione all'opera incompiuta, con implicita quell'immagine dell'«uomo finito», che è la più vera del Papini uomo e artista.
   Anche la infatuazione nazionalfascista del Papini si spiega, forse, con il timore di restare indietro, di perdere quella posizione di capofila, cui egli ambiva e che si industriava in ogni modo di mantenere e di consolidare. Questo è anche il tempo del suo altisonante e vacuo retoricismo.
   A quarant'anni il Papini dà un nuovo guizzo: la conversione, da cui scaturisce quella Storia di Cristo, che fa notare al Sapegno come la crosta del Papini è sempre quella, essendo la nuova opera non diversa dalle precedenti, ma sempre un pretesto allo scolastico esercizio di terni svolti. Troppe volte, in vero, si avverte nel Papini l'ostentazione di una scoperta bravura verbale, prevalente pretesto e interesse alla sua scrittura.
   L'ora della verità, per lo scrittore, è quella degli ultimi anni, quando si trova


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infermo, paralizzato, senza possibilità più né di leggere, né di scrivere, né di parlare: un uomo il quale, posto finalmente di fronte alla sua condizione umana, guarda con occhio sereno la vita e si dispone senza trepidazione alla morte. Allora egli si scopre e si riconosce.
   Frutto di questo momento sono quelle «schegge» che, apparse da prima sparsamente sulla terza pagina del «Corriere», costituiscono il diario e il testamento di un'anima, che nella riduzione all'interiore esperienza, si svincola dai legami del tempo. Siamo alla presenza di un Papini, redento da ogni fisima e velleità. È l'ora solenne del crepuscolo di tutti gli dei e del tramonto degli idoli, nei quali egli aveva più o meno creduto e per i quali aveva combattuto. È l'ora della solitudine: l'ora della preghiera: l'ora di Dio.
   È questo, in sintesi, il Papini che l'antologia del Bo rintraccia e propone. Compito certamente non facile ma ben risolto, sfrondando nel guardaroba dello scrittore con mano decisa e sicura, senza tema di sacrificare pagine anche decantate, ma limitrofe all'interiore ictus, secondo cui il Bo raffigura l'immagine dello scrittore.
   Tirando adesso le somme e sedati i clamori constatiamo amaramente che il Papini è quasi un dimenticato. Giustamente osserva il Bo: «Papini nel quarantacinque più che superato, era un rudere di un'Italia che tutti volevano dimenticare e cancellare... Papini è morto solo; non c'erano più giovani intorno a lui».
   Le pagine conclusive della prefazione del Bo sono penetranti e collocano il Papini sotto la luce e nelle prospettive del mondo contemporaneo, tanto diverso dal suo. Di lui resta l'onestà così della vita familiare come della pagina, la borghese semplicità dei costumi, la generosità dell'amicizia, la strenua sopportazione degli ultimi anni dolorosi, alle cui sorgenti ha attinto la parte migliore dell'opera sua.
   Infine non ci resta che sottoscrivere pienamente la conclusione del Bo, il quale termina la sua prefazione con queste parole:
   «Il lettore, dunque, non ceda a preconcetti di nessun genere, si abbandoni a sua volta: alla fine gli sarà dato di percepire qualcosa di diverso, di autentico sotto il peso di tanta carta che è stata la sua condanna e la sua salvezza, nel senso che tanto lavoro, tante ramificazioni, tanto affanno apparentemente inutile avevano il compito di mantenere vivo l'amore della vita, il bisogno della poesia, il lungo e disperato inseguimento di Dio».


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